Raimondo a mare

(Liberamente ispirato a una storia vera)

Si chiamava Raimondo Vacca e come ogni estate da oltre vent’anni trascorreva le due settimane di ferie a cavallo di ferragosto a Scilla, esattamente al lido Paradiso, dove ogni mattina alle 10.30, prima di arenarsi sul lettino con la sua fedele Settimana Enigmistica, Francesco dal bancone del bar gli allungava un cappuccino e due scaddateddi. Alle 14 in punto Raimondo tornava al bar del lido, dove Fernanda, fresca fresca di diploma e con due tette grandi più o meno come due meloncini, con la buccia liscia e la polpa chiara, gli allungava due panini, uno con prosciutto e formaggio, l’altro con i pomodori secchi. Andava pazzo Raimondo per i pomodori secchi. Come quelli che gli cucinava sua nonna quando era bambino. Ne andava così ghiotto che una volta ne prese una manciata, li chiuse in un fazzoletto di carta e li buttò nella cartella insieme ai libri prima di avviarsi a scuola. Quando venne il momento di mangiarli scoprì attonito che l’olio di cui erano impregnati colando tra le pagine del libro di geografia, aveva creato una patina lucida e rosa, viscida e un po’ filante sulle pagine dedicate al Mar Mediterraneo. Da allora Raimondo sviluppò una sorta di allergia verso la geografia, i confini, i mari, le capitali; non seppe mai con precisione quali paesi confinassero con l’Italia, né tanto meno riuscì mai a distinguere le isole che nelle giornate particolarmente limpide poteva intravedere al largo delle coste di Scilla. Non era insomma interessato alla questione.

Raimondo quel pomeriggio si era alzato dal lettino e si era diretto al bar. Vi trovò Anna, una moretta piccolina che parlava sempre con la gomma in bocca. Si fece preparare un Campari come era suo solito bere intorno alle 18 e appoggiato al bancone con lo sguardo rivolto alla spiaggia, sorseggiò il suo drink guardando quanti più bikini e chiappe poteva. Faceva un caldo bestiale e seppur stesse calando il sole l’aria era ferma e bollente. Decise così di buttarsi in acqua sopra il suo materassino fucsia. Con le mani nell’acqua fresca e il corpo bagnato esposto al sole, totalmente abbandonato al dolce rollio delle onde, Raimondo chiuse gli occhi. In lontananza udiva il brusio e il vociare dei bagnanti, dei bambini che strillavano, dei genitori che li richiamavano… percepiva tutta quella vita coprirsi lentamente del tepore del tramonto. Il ripetersi del molle sciabordio dell’acqua sul materassino lo cullò per un tempo indefinito. Raimondo entrò in un sonno profondo.

Vide aerei da guerra tedeschi, era certo fossero tedeschi, rumorosissimi e minacciosi sorvolare a bassa quota le case di Scilla, li vide poi tornare e fermarsi sopra di lui in un gioco di traiettorie e linee aree che lo lasciava sgomento, vide quegli aerei puntargli addosso affilate mitragliatrici e vide, infine, uno sciame nero e denso di proiettili avanzare velocissimi verso di lui. Si risvegliò di soprassalto e sentì la sua voce urlare “che minchia fateeeeeee”. Poi il nulla, e furono tre secondi di silenzio e paralisi. D’istinto sollevò il busto per alzarsi e si ritrovò nell’acqua ad annaspare e tentare scoordinatamente di aggrapparsi al materassino. In pochi attimi realizzò la situazione e dagli occhi sgorgò un pianto disperato di cui non si immaginava capace. Era sera ormai e il sole era calato da chissà quanto. Solo in mare aperto e le deboli luci della costa lontanissime. Come minchia aveva fatto. Questa era la domanda che per oltre sei ore Raimondo ripetè, a volte piangendo, altre urlando, altre ancora urlando e piangendo insieme. Come minchia aveva fatto ad allontanarsi così tanto dalla spiaggia.

E a che minchia di paesi appartenevano quelle lucine fioche che distingueva a fatica là in fondo? E se già non fosse stata più Italia? Poteva forse essere l’Africa? La Spagna? Dove minchia era finito. Raimondo si sfinì ripetendosi ossessivamente queste domande quando dal cielo una forte luce lo colpì.

Oddio no, pensò, quei bastardi dei tedeschi!